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Il viaggio del nonno

Racconto a cura di Giacomo Gandini
illustrazione di Stefania Castelnuovo
 
Con il racconto di Giacomo Gandini inauguriamo un nuovo spazio del nostro magazine, dedicato a storie che intrecciano memoria, natura e tradizione ispirate al territorio alpino. Il racconto, intitolato "Il viaggio del nonno", ci immerge nella dura vita alpina di un tempo attraverso la figura del protagonista, la cui forza d´animo si riflette nella connessione profonda con la terra e la famiglia. Attraverso il dialogo con la nipote, i gesti quotidiani e la lotta contro una natura impietosa, emergono valori di tenacia e sacrificio. In un viaggio epico attraverso i sentieri delle Alpi, il nonno ci mostra cosa significhi davvero mettere il cuore in ciò che conta di più. Un inizio potente per una rubrica intensa ed emozionante.
 
"Ma non ti stanchi mai nonno?”
L’uomo smise di scavare la terra carica di argilla acida, meditando seriamente sulla domanda.
“Mai”. Sorrise caldamente, riempiendo di sicurezza il cuore della bambina.
Il nonno osservò la nuora appendere pazientemente i panni sul lungo spago nella brezza serale. L’avrebbe aiutata volentieri ma le sue mani erano nere e polverose di terra, sapeva che se si fosse avvicinato di qualche passo sarebbe stato ripreso. D’altro canto, andare a lavarsi le mani nell’abbeveratoio era una fatica che, si vergognava di ammettere, non aveva alcuna intenzione di fare. Perciò aspettò, mirando le dita morbide della giovane donna muoversi con perizia, spostandosi i capelli dal viso e distendendo bene le lenzuola color crema.
 
Sollevò il mento per vedere le nuvole rosa degli ultimi secondi di tramonto, in alto, oltre la catena delle Alpi. Acquattati sotto le travi in legno del tetto, sedevano al tavolo per la cena.
“Deve mangiare qualcosa”, pronunciò la nonna rivolta alla madre.
La donna annuì senza ascoltare, concentrata nell’imboccare la figlia che si ostinava a tenere le labbra serrate. “Le hai dato di nuovo le zollette di zucchero prima di cena?”, insistette la nonna. Il nonno incrociò lo sguardo della nipotina per lanciarle un sorriso complice ma lei mantenne lo sguardo basso.
“Le aprono lo stomaco”, si difese l’anziano alzando le spalle. Il nonno si pulì la bocca con il dorso del polso e fece il giro del tavolo circolare fino a raggiungere la bambina. La indusse ad alzarsi dalla sedia solleticandole le ascelle per poi permetterle di accomodarsi sulle sue ginocchia robuste.
 
“Allora”, disse, “lo sai quanta fatica hanno fatto queste piantine per crescere?”
La bambina scosse la testa ma già le labbra le si spalancarono leggermente.
Sotto la trapunta calda del letto, il nonno sapeva bene che la moglie era sveglia, la sentiva trattenere il respiro sul punto di parlare per poi ripensarci all’ultimo.
“Dì quello che devi dire”, gli scappò infine dopo l’ennesimo mezzo sospiro.
La nonna allungò le gambe spostando leggermente le sue.
“Ho paura che la piccola abbia qualcosa”. Per la prima volta nella giornata il nonno si scurì in volto, “Perché dici così?” In risposta giunse la quiete della montagna, immobili nel buio gli occhi dell’anziano non si chiusero più per molte ore, arrossati dall’angoscia.
 
La fiammella stazionava pacata ed eretta, rigida come inglobata nel vetro. Il nonno la osservò in sogno riconoscendola, associandola al lavoro nelle miniere di granito alle quali aveva dedicato la gioventù. Sentì sapore di zolfo urente sulle papille, si guardò intorno riconoscendo e rispecchiandosi nei volti scavati di quei compagni di lavoro con i quali aveva condiviso l’ossigeno e mischiato il sudore. A torso nudo per piazzare cariche e picconare, giù nelle viscere di un colosso morto, col terrore che si risvegli. Quando riaprì gli occhi, il buio lo spaventò rendendolo incapace di allontanarsi dall’incubo, a riportarlo sulla terra fu la piccola tosse della bambina, ovattata dalle pareti. Il giorno seguente, le due donne si aggrapparono alle sue spalle vedendo le labbra del medico arricciarsi e le sopracciglia alzarsi frequentemente. Nel vento gelido portato dalle prime nevi delle cime, il vecchio spalancò la bocca lasciando che l’aria lo permeasse e lo lavasse, pungendogli i lati degli occhi come spilli per le lacrime ghiacciate.
 
Le famiglie del paese attendevano fuori dall’uscio e vedendolo gli si approcciarono timidamente comunicando con sbuffi e scuotimenti di capo, pacche gentili e bisbigli fra le frasche non tagliate. Nel guardare gli altri anziani come lui, il nonno notò visi tondi dagli occhi ristretti di chi non aveva più niente da dare, e aspettava. Strinse i pugni e rientrò nella casa dove sapeva sarebbe iniziata una lunga discussione. “Questa penicillina”, disse il nonno facendo voltare il medico, “dove si trova?”. “In Svizzera”.
Il dottore strinse la mano della bambina per rassicurarla ma fu un gesto troppo rapido.
Il giorno della partenza, con la mucca condotta tenendo la corda nella mano destra e una sacca contenente alcuni viveri sulla spalla sinistra, il nonno provò a consolare le due donne, le avvicinò a sé e le abbracciò.
 
“Se le mie mani hanno ancora forza, la userò per questo”, concluse sorridendo con pazienza, sapendo che la morte in quel momento non aveva potere su di lui, “Ma se non tentassi nemmeno, a cosa servirebbe il mio respirare perfino ora?”
Lasciandole, azzardò la discesa in quell’antico sentiero usato dagli spalloni, sopportando il dolore al collo per la testa china e i fasci dei muscoli delle braccia gonfi per controllare a dovere il bovino che lo seguiva docile ma attento in quei sentieri scoscesi. Percorse senza intoppi un lungo tratto quando, sentendola prima nel naso che vedendola con gli occhi, iniziò la pioggia.
 
La prima preoccupazione fu quella di calmare la giovane mucca ancora non esperta di temporali, accarezzandole i fianchi tondi, facendole sentire le mani sul collo di cuoio duro. L’artrite gli infiammava le ginocchia ma doveva accelerare, sapendo che presto un rifugio di pietre, calce e travi nere avrebbe offerto riparo almeno dalla pioggia battente.
La luce calò in quel tardo pomeriggio di fine ottobre. Dentro le nuvole blocchi di granito che strisciavano uno sull’altro, tuonando in quella miniera celeste disfatta e riplasmata da riassestamenti costanti, la pioggia finissima una polvere di calcareo corsoduro sugli alberi e i viandanti sottostanti. Anche lassù, pensò il nonno, come lui lo era stato, angeli al posto di operai frustati dalle saette.
 
L’acquazzone divenne forte al punto da rendergli difficile respirare. Temendo che la mucca fuggisse e sentendo che il momento della prova era giunto, strinse la corda per attaccarsi alla bestia, avanzando all’unisono nella solitudine di chi vede la natura sfasciarsi e cambiare pelle dinanzi ai propri occhi. Nel rifugio trovò altre anime in viaggio come la sua al tepore della piccola baita. Gli ospiti non si parlarono, legittimando e affrontando la paura con il
silenzio. Ascoltarono nella poca luce lo scrosciare furioso del temporale, lanciando sguardi al vecchio che cercava e poi distendeva una coperta logora sull’animale fradicio.
Poche ore dopo, mentre la fanghiglia impietosa li intrappolava mettendo fine all’eroico proposito, il nonno si sdraiò all’indietro cercando di non udire i muggiti orribili della vacca. Liberò le gambe e strisciò carponi davanti alla mucca, le baciò il cranio spesso e prese a tirare per sollevarla. Le parlò all’orecchio ricordandole la sacralità del loro intento.
 
“Oh Dio, per la mia vita, permettimi”, diceva l’anziano imbrattato di limo e nel mentre tirava con ogni forza. Tirò, iniziando a pregare senza conoscere formule o parole, tirò, con quelle mani che erano solite spezzare il granito. Per il funerale la chiesa ospitò i presenti giunti dalla valle e dai villaggi delle alture. Le panche erano state rimosse per stipare le persone sotto l’unica navata. Al termine della cerimonia, i bambini nei pressi dell’altare attesero dalla madre il permesso di uscire a giocare. La donna li abbracciò ma ci tenne che salutassero un’ultima volta il bisnonno, che molti anni prima l’aveva salvata dalla polmonite.






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